A un caro Amico

Gennaio 2015

La vita, nel suo procedere casuale, me lo ha fatto conoscere durante una riunione del Tiretto, una di quelle riunioni in cui si cercano le chiavi che sappiano dare le risposte a tutte le domande che, ostinatamente, ci diamo, quasi a voler trovare la soluzione alle asperità che, in un modo che spesso non appare per nulla casuale, la vita ci presenta.

Questa ricerca costante, quasi fosse un dovere, riunione dopo riunione, ci fa piccoli e abili artigiani ideatori di domande che, astrusamente, presentano serrature sempre più sofisticate, intricate e fascinose, che riescono a giustificare e motivare lincontro successivo.

Lo avevo conosciuto, appunto, in uno di questi incontri e, pur rimanendo, il nostro, un rapporto superficiale, avevamo iniziato a ritrovarci affini ricercatori di quelle chiavi.

Certo, io ero fortunato, tornavo a casa lasciando l’attrezzatura atta alla ricerca a terra, lui invece, sollecitato dalla necessità e dall’urgenza di rispondere a chi, quelle domande, gliele presentava ogni giorno, quella ricerca la doveva continuare quotidianamente.

Capita poi, mentre mi trastullavo nel cercare chiavi di domande insignificanti e il mio fare il volontario diveniva quasi routine, che mi si avvicina e mi presenta l’asperità che, il superarla, avrebbe potuto dare un senso a tutto ciò che stavamo facendo.

Forse, sino a quel momento, avevamo fatto cose importanti per chi viveva il disagio mentale: attività sportive, laboratori creativi (ristrutturazione di mobili, ceramica, disegno, teatro) stavamo anche gestendo un Gruppo Appartamento che ospitava quattro persone, ma mancava la cosa che desse evidenza e ragione al nostro impegno, che desse a noi coscienza dell’utilità di ciò che si stava facendo, che ci sbloccasse da quel senso di impotenza che noi avvertivamo nel non trovare sbocchi al disagio o almeno così ci pareva.

Dicevo che mi si affianca, e mi informa che uno dei soci con cui produce ortaggi per alcuni Gruppi di Acquisto Solidali, aveva deciso di cessare la produzione. Poi, senza neppure nascondere quel mezzo sorriso impacciato che nasce a chi sa che sta per dire una cosa talmente incredibile che neppure a lui pare vera, mi domanda con la naturalezza di chi ti chiede se vuoi prendere un caffè: “Perché non lo sostituiamo noi con i ragazzi?”

Ecco! Io sono una persona normale, nel mio corredo non c’è la predisposizione ad orizzonti così immediati e imprudenti o a lampi senza almeno la cornice estetica di un temporale e, una simile proposta, avrebbe richiesto almeno cautela, ma lui, forse, per la cautela non aveva tempo oppure la teneva in serbo per altre occasioni e a me non rimase che domandarmi dove avrei trovato la chiave che avrebbe saputo dare la risposta a una domanda simile.

Forse, lui che sapeva tutto, fu incosciente nel fare quella proposta, oppure fu incoscienza la mia nell’accettarla sapendo nulla, ma quella chiave la trovammo immediatamente.

Rimane che questa incoscienza ci ha unito in un progetto che solo lui poteva proporre, forse un progetto pazzo, ma a pensarci bene, noi, tutta questa follia, non la sapevamo vedere.

Da quel momento è stato un susseguirsi di incontri. Nonostante le mie ansie, seguite costantemente dalle sue rassicurazioni, la primavera successiva vedeva la nascita del progetto.

A pensarci oggi, non escludo che l’embrione della follia non ci avesse mai abbandonato.

Con l’avvio del progetto, che sarebbe stato poi chiamato “Pazza Idea”, nasceva anche la nostra amicizia, una amicizia non fatta di frequentazioni ma sicuramente di stima reciproca. Sapevamo entrambi quanto fosse stata difficile da realizzare la nostra utopia, ma non volevamo crederci, anzi, più le cose diventavano difficili, tanto da avvertire sbandamenti, più lui prendeva saldamente in mano il timone della barca, ritracciava la rotta e noi dietro a seguirlo.

Mi domandavo spesso il perché, malgrado queste difficoltà, non mollasse mai, ma al contrario aumentasse la posta.

Il perché del suo mai arrendersi, del suo continuo ritracciare, ho avuto la fortuna di comprenderlo davanti alla chiesa di Lerma.

Davanti alle chiese, quando si svolgono funzioni religiose, ci sono sempre quelle persone che a gruppi di tre o quattro, vivono la cerimonia esternamente alla chiesa stessa e, ognuno con i propri ricordi, contrappongono al silenzio interno il loro raccontare la vita dei soggetti cui la cerimonia è dedicata.

E’ talmente usuale questo comportamento, che si può sospettare che ormai facciano parte della liturgia.

Anche in questa occasione non mancarono e da uno dei gruppi parsi lungo la strada e davanti al sagrato della chiesa, quasi come danzatori di Pizzica con lo scopo di esorcizzare l’avvenimento, mi giunsero queste parole svelatrici: “Era un combattente”.

Adesso lo voglio ricordare nel suo orto in mezzo ai ragazzi, a suggerire, a ricordare l’impegno che avevano preso non con lui, ma con loro stessi nel partecipare al progetto, a lamentarsi del tempo o del raccolto, a chiedere a tutti maggiore responsabilità, a indicare gli impegni futuri, ad arrabbiarsi con tutti per poi, con il suo sapiente trucco della pazienza a dispensare uno dei suoi rari sorrisi, esile nella figura ma enorme nel cuore: Un combattente! Appunto!

Lui, naturalmente, era Livio